sabato 5 maggio 2012

Le dimensioni (non) contano


LE DIMENSIONI (NON) CONTANO
L'agricoltura industriale a confronto con le agricolture contadine


Questa sera ci occupiamo di agricoltura contadina e familiare. Si tratta di realtà con tratti specifici differenti a secondo del contesto che le ospita, ed è per questo che preferiamo parlare al plurale di “agricolture contadine”.

Possiamo riconoscere nelle agricolture contadine la convergenza di due esigenze particolari: la salvaguardia dei metodi contadini tradizionali e la valorizzazione delle nuove pratiche agroecologiche[1].

Riferendoci a realtà contadine, dobbiamo immaginare aziende relativamente piccole, ma ad alta intensità di lavoro, svolto prevalentemente o esclusivamente dai componenti della stessa famiglia o comunità. La produzione è consacrata sia all'autosostentamento sia alla commercializzazione con la ricreca però di un'ottica di filiera corta, perlopiù attraverso rapporti diretti con i consumatori. É per questo che le semine dei contadini garantiscono un'alta diversificazione agronomica e biologica, animale e vegetale: dovendo pensare all'alimentazione propria e a quella dei consumatori, differenziare le coltivazioni è essenziale[2].

Al contadino non far sapere...

Come la tradizione ci insegna, ai contadini non si dovrebbe far sapere l'utilità e la genuinità delle loro coltivazioni, altrimenti potrebbero cercare di trarne beneficio. Ciò che forse non viene immediatamente suggerito dall'antico proverbio è che non si tratta di nascondere loro la bontà “del formaggio con le pere”, ma il fatto che la loro agricoltura è la più presente al mondo e produce almeno il 70% del cibo a livello globale (ETC, 2009) e che sin dagli anni '90 è dimostrato che la produttività contadina è maggiore di quella dell'industria.

In Italia, i dati del censimento 2010 testimoniano una buona presenza di aziende di coltivatori diretti. Anche se emerge la perdita in 10 anni di quasi il 36% delle aziende diretto coltivatrici, bisogna affiancare questo dato alla scomparsa del 39% di quelle condotte con salariati, (che numericamente si riducono ad un totale 46.000 aziende contro un milione di aziende diretto coltivatrici). Inoltre, per quanto riguarda la diminuzione della SAU (superficie agricola utile), le aziende diretto coltivatrici perdono solo il 4,5% mentre quelle condotte con salariati riducono la SAU circa del 23%. In sintesi, si può affermare che durante la crisi che da anni sconvolge i mercati, i contadini riescono ancora a produrre la parte maggioritaria della Produzione Lorda Vendibile (PLV) della nostra agricoltura e, nell’agricoltura biologica, hanno affermato il primato italiano nel mondo.

Ed è per questo che a loro dedichiamo questa cena, per far sapere che i contadini non sono l'anacronistico residuo di un passato da superare o da rendere un angolo di folklore campagnolo per il nuovo turismo verde, così come sono descritti da coloro che decidono le politiche agricole comunitarie e che sulla base di simili ragionamenti li privano dei contributi e sostegni spettanti ai soggetti produttivi. In questa cena, mentre potrete assaporare i veri sapori dei prodotti della terra, vorremmo mettere in luce che il modello contadino non è una pratica a basso impatto ambientale, ma insufficiente a sfamare l'intera popolazione mondiale. Riflettere, dati alla mano, su quale agricoltura preferire per il presente e il futuro ci porta invece a riconsiderare il valore strategico delle agricolture contadine, perché costituiscono di fatto l'ossatura della produzione alimentare mondiale. Così come rappresentano la possibilità di una riacquistata sovranità alimentare, di una nuova indipendenza e stabilità delle economie locali per le comunità dei paesi in via di sviluppo.

La PAC? Un pacco

Nel 1957 con il Trattato di Roma veniva istituita la Politica Agricola Comune europea (PAC). L’intervento europeo in agricoltura era basato su una serie di misure: volte da un lato a sostenere la produzione in termini quantitativi e garantire la sicurezza alimentare in Europa, dall’altro a sostenere le famiglie contadine e ridurre la povertà rurale per realizzare la parità tra redditi agricoli ed extra-agricoli.

Il primo obiettivo è stato raggiunto grazie alle misure protezionistiche che hanno caratterizzato la PAC fino in tempi recenti, mentre la scelta di commisurare il sostegno alla produzione e incentrarlo su prodotti standardizzati e di massa ha favorito le aziende più grandi e protetto meno le produzioni a più alta intensità di lavoro, favorendo una continua stratificazione sociale in agricoltura[3].

Seguendo le linee guida poste sin dall’inizio, la PAC ha perseguito l’intento di modernizzazione ed eliminare le differenziazioni presenti in Europa e con essa tutte le aziende che non fossero riuscite a uniformarsi al modello dominante[4].

L’agricoltura, pertanto, è stata spinta verso il modello produttivistico basato sulle economie di scala, sull’intensificazione e la specializzazione produttiva, sulla standardizzazione dei processi e dei prodotti e l’introduzione di tecnologie sostitutive al lavoro.

Questo ha prodotto un abbandono progressivo di quelle che venivano considerate forme arretrate di produzione, quali il tradizionale assetto multi-colturale e l’organizzazione integrata tra agricoltura allevamento e piccola trasformazione (conserve, formaggi, farine etc. prodotte in azienda), provocando processi di destrutturizzazione a livello aziendale caratterizzati dalla rottura del ciclo di produzione con una progressiva esternalizzazione di settori produttivi non più controllati dall’agricoltore, ma delegati a un sistema agroindustriale. Ciò ha provocato un indebolimento delle connessioni tra agricoltura e contesto locale, inteso come ecosistema e come sistema di rapporti sociali. In alcuni casi, ad esempio, l’allevamento industriale diviene così slegato dal contesto agricolo da poter marginalizzare o escludere il fattore produttivo principale, ovvero la terra. Rompendo il ciclo chiuso di fattori produttivi e prodotti che caratterizzava la realtà contadina, quello che una volta era una risorsa presente e riusabile in azienda è diventato un costo deciso dal mercato, oppure un rifiuto da smaltire, con difficoltà e rischi per l'ambiente (mangimi, fertilizzanti, paglia, reflui zootecnici, sottoprodotti della trasformazione nell'industria agroalimentare etc).

Nella negoziazione sulle riforme i governi hanno difeso il livello di finanziamenti acquisito portando a sostegno di questa strategia la tutela degli agricoltori delle filiere più rilevanti a livello nazionale, tralasciando il fatto che per la maggioranza di questi si tratta di sostegni marginali. In realtà gli unici interessi a essere in questo caso difesi sono proprio quelli dei grandi produttori.

Attualmente, la deregolamentazione e la liberalizzazione del mercato introdotta dalle più recenti riforme della PAC, in accordo con la politica mondiale portata avanti da organismi come il WTO, accresce la capacità di controllo del mercato da parte del ristretto numero di multinazionali agroalimentari che operano sul mercato europeo.

Ancora oggi in Europa si riscontra un'alta moria di aziende: consideriamo che in Belgio, ad esempio, il numero di aziende è passato da 80974 nel 1992 a 49850 nel 2006 (CSA, 2008), mentre l’agricoltura italiana tra il 2000 e il 2005 ha visto scomparire circa un quinto delle proprie aziende.

Le riforme della PAC non hanno modificato il paradigma dello sviluppo agricolo rimasto costantemente ancorato a quello della modernizzazione, ma hanno determinato un cambiamento rilevante nelle misure di sostegno. Queste non hanno prodotto un riequilibrio, ma hanno progressivamente deregolamentato il mercato europeo e sostituito i sussidi alle esportazioni con i pagamenti diretti. Questa strategia, sempre in linea con l’Accordo sull’Agricoltura al WTO, è stata portata avanti per conservare le quote di esportazione dell’UE sul mercato mondiale e per favorire gli interessi delle multinazionali agroalimentari che hanno potuto così accedere a materie prime a prezzi più bassi. I pagamenti diretti per ettaro permettono alle imprese multinazionali di includere questi sussidi nei loro calcoli dei prezzi sia nel caso dei macchinari o degli input chimici che nel prezzo pagato alle aziende agricole dalle industrie trasformatrici.

È bene, pertanto, conoscere il ruolo della PAC nel percorso dell’Unione Europea.

Per prima cosa, come abbiamo visto, deve essere considerata la capacità di coinvolgere il mondo agricolo nelle dinamiche socio-economiche complessive; inoltre, la funzione di sostituzione agli interventi nazionali in campo agricolo, in particolare in Italia, che consentì ai singoli Stati europei di concentrare le proprie risorse finanziare sullo sviluppo industriale. infine, la dimensione comunitaria, che permise di introdurre misure protezionistiche del mercato europeo comune (MEC) che è stato sempre più difficile giustificare nel contesto delle relazioni internazionali del secondo dopoguerra improntate all’apertura commerciale.

Visto il fallimento della PAC si potrebbe pensare che non ci resta che lasciare che la regolamentazione del campo agricolo siano lasciate al libero mercato. Al contrario, come dimostrato ancora una volta dalla recente crisi alimentare, il “libero mercato” è uno strumento profondamente inadeguato e il un dibattito proficuo sulle politiche agricole dovrebbe vertere su quali siano i migliori strumenti da adottare partendo dai successi e dagli errori del passato.

La PAC incentrata sul modello produttivistico, si basa sul concetto di economie di scala, sulla specializzazione e l’intensificazione; una nuova PAC dovrebbe essere fondata sulle economie di scopo e sulla diversificazione e le sue misure volte a garantire la giusta remunerazione del lavoro agricolo.

Una nuova PAC, inoltre, portrebbe iniziare dal favorire i mercati locali e regionali, sostenere la trasformazione locale o in azienda dei prodotti, la vendita diretta e le infrastrutture locali necessarie allo sviluppo di questi mercati.

Occorre un nuovo patto tra agricoltura e società, occorre una politica agricola che apra alle possibilità di legare la produzione al territorio e la rete delle imprese agricole (quasi sempre familiari o di origine familiare) alle esigenze delle comunità locali, ricercando la sostenibilità del sistema produttivo agricolo, con la possibilità di valorizzare il rapporto tra locale e globale in maniera democratica, partendo dal basso.

Lo sformato è a testa alta

I piccoli contadini europei, relegati all'invisibilità e alla retorica del mondo dei vinti dal dopoguerra ad oggi, sono invece attivi e si sono riuniti nel Coordinamento Europeo Via Campesina, una piattaforma comune a difesa del modello agricolo più diffuso nel nostro paese: quello delle medie, piccole, piccolissime aziende.

Queste realtà genuine, sempre più spinte alla clandestinità, schiacciate da normative pensate per l'agroindustria, private dei contributi pubblici, hanno acquisito una sempre maggiore consapevolezza del proprio valore politico, sociale ed economico, andando a sviluppare associazioni circuiti e reti quali, ad esempio il CCP- Coordinamento Contadino Piemontese, CampiAperti a Bologna, la TerreinMOTO di Milano, TerraTerra di Roma, La Ragnatela di Napoli, ecc.

Da CampiAperti è nata la campagna “Genuino Clandestino”, una campagna di disobbedienza civile, autodenuncia e certificazione partecipata della genuinità dei prodotti trasformati non a norma di legge, per affermare la necessità di cambiare le leggi sulla trasformazione alimentare che in Italia non fanno differenza tra l'agroindustria e la piccola trasformazione; imponendo ai contadini di affrontare investimenti ingenti e complesse burocrazie.

Genuino clandestino

È più sana una pagnotta confezionata in un grande stabilimento agroalimentare o una pagnotta di farina di grano biologico impastata a mano dal contadino di fiducia? Per noi non c’è paragone, ma per qualcun altro sì. Genuino Clandestino è una campagna promossa da CampiAperti per denunciare un insieme di norme ingiuste che, equiparando i prodotti contadini trasformati a quelli delle grandi industrie alimentari, li rende fuorilegge. Aiutaci a cambiare le cose. Difendi i prodotti genuini clandestini.

Clandestino…
[...]
Circa il 20% dei prodotti venduti oggi nei mercati di CampiAperti sono fuorilegge1.
… ma Genuino!

Siamo produttori biologici. Utilizziamo risorse abbondanti come il tempo e il lavoro umano e risparmiamo quelle preziose come l’acqua e la terra. Non abbiamo i mezzi necessari per affrontare la spesa di messa a norma di un laboratorio, ma non vogliamo essere considerati fuorilegge.

Progressivamente quella che era partita come singola campagna è diventata un'occasione di confronto nazionale su diversi temi “caldi” per l'agricoltura (legislazione, accesso alla terra, biodiversità e sementi, etc.), per la quale diverse realtà, donne e uomini di ogni parte d’Italia, si sono autorganizzati e messi in contatto in difesa delle realtà contadine. Di fronte al fatto che migliaia di piccoli agricoltori erano esclusi dalla possibilità di commercializzare i propri prodotti e i consumatori quella di poter scegliere modelli di produzione diversi ed effettivamente adeguati a garantire genuinità ed affidabilità dei cibi, le diverse realtà contadine hanno lanciato una sfida alle logiche economiche e alle regole di mercato studiate per l’agroindustria. L'obiettivo della rivendicazione di Genuino Clandestino, e delle altre istanze che arrivano dal mondo contadino, come la campagna per l'agricoltura contadina portata avanti da... è di difendere il diritto al reddito dei piccoli agricoltori, la libera trasformazione dei prodotti, che integra la produzione agricola ed evita sprechi delle produzioni, la sicurezza alimentare, o meglio sovranità, basata sul rapporto fiduciario con chi sceglie i prodotti contadini e l’agricoltura contadina, che diventa da consumatore a coproduttore e infine l’immenso patrimonio di saperi e sapori della terra.

Contravvenendo a normative che richiedono un investimento assolutamente fuori portata per una piccola realtà contadina, i contadini, in tutto il mondo, hanno saputo sviluppare esempi di sistemi di garanzia partecipativa (PGS – Participatory Guarantee Systems), ovvero attività che uniscono produttori e consumatori a partire dalle proprie locali relazioni di fiducia. Le parole d'ordine di una simile sistema di garanzia sul prodotto sono: partecipazione (la credibilità del sistema è una conseguenza della partecipazione attiva di tutti gli attori); trasparenza (tutti gli attori coinvolti devono avere un buon livello di consapevolezza delle modalità di funzionamento del sistema, sostanziale e non formale); fiducia (il sistema si basa sulla convinzione, diffusa tra tutti gli attori, che i produttori agiscano in buona fede e che la certificazione sia espressione di tale affidamento); apprendimento (la certificazione deve tradursi in un processo di apprendimento collettivo permanente che irrobustisce tutta la rete coinvolta); orizzontalità (tutti gli attori coinvolti nel PGS devono condividere il medesimo livello di responsabilità e competenza nel processo)[5].


Dunque la nostra cena è condita dell'intraprendenza e dell'inventiva dei contadini, così come del loro coraggio, senza i quali i loro prodotti non arriverebbero sulle nostre tavole. Ancora però manca un ingrediente affinché tali realtà possano aumentare la distribuzione dei propri raccolti: una politica europea, e mondiale, che non favorisca solo i grandi magnati della terra, ma che prenda in considerazione le esigenze di quei “piccoli” che sono i veri grandi attori della nostra sovranità alimentare, poichè ci permettono di nutrirci e di farlo un modo adeguato e genuino. Infatti, prorio i fondi pubblici, insieme allo sfruttamento dei lavoratori e dei produttori, sono ad oggi la chiave per comprendere la capacità di abbattimento dei prezzi della grande distribuzione. Ci troviamo dunque dinnanzi a una condizione che si può definire di concorrenza sleale, che ancora costituisce un limite per la possibilità di vendita delle piccole realtà agricole.

Come ammazzacaffè ci sentiamo di offrirvi le parole che la Via Campesina ha rivolto al Premier Monti, rivendicando:

- la costruzione di una innovativa base giuridica a difesa dell’agricoltura contadina e dei piccoli produttori di cibo, così come esiste una base giuridica appropriata e specifica per la piccola e media impresa industriale;

- un diverso regime fiscale e igienico sanitario per le aziende agricole di piccole dimensioni;

- la riforma dei meccanismi di governance delle politiche agricole a livello nazionale e locale che facciano emergere le reali istanze di tutti gli agricoltori e non quelle delle corporazioni agricole dominanti, attraverso effettivi processi elettorali delle rappresentanze agricole da coinvolgere nelle decisioni, ad ogni livello;

- una seria strategia di politica agricola nazionale capace di contrastare il pericoloso deficit della produzione alimentare del nostro Paese e ridare centralità nei processi decisionali delle politiche del cibo a tutti i cittadini;

- politiche per l’approvvigionamento alimentare locale – visto il potenziale di mercato offerto dalle nostre città – basate principalmente sui piccoli produttori visti anche come opportunità occupazionale, valorizzazione ecologica, sociale ed economica dei territori rurali e come strumento per migliorare effettivamente la qualità dell’alimentazione dei cittadini;

- la definizione di politiche pubbliche di sostegno all’agricoltura contadina; politiche di sostegno alla conversione produttiva promuovendo anche l’agricoltura biologica che emancipi i territori dalle monoculture e aiuti la diversificazione e l’integrazione produttiva in linea con una visione diversa del greening;

- il ripristino di un servizio di assistenza tecnica pubblica gratuita per le piccole e medie aziende per liberarle dal peso delle pratiche burocratiche e dalla dipendenza dall’assistenza tecnica fornita dalle ditte produttrici di input produttivi o di commercializzazione della produzione. Liberalizzare il ricorso a tecnici indipendenti e di fiducia dei piccoli produttori di cibo capaci di integrare le loro conoscenze con il “saper fare” dei contadini per realizzare quel cambiamento in senso agro ecologico fondamentale per l’agricoltura italiana, unico spazio effettivo di mercato in cui possiamo competere anche sul mercato globale, come ben dimostrano i risultati ottenuti dai nostri produttori biologici.

“Noi non ci consideriamo residui folkloristici, strapaesani e economicamente marginali tanto da essere considerati casi da rete di sicurezza sociale, al contrario, siamo quella parte dell’agricoltura del paese che, pur godendo finora in modo marginale del sostegno PAC, pur mancando di politiche pubbliche di supporto, pur dovendo vincere la concorrenza sleale dell’agricoltura industriale, taglieggiati dalla Grande Distribuzione Organizzata (GDO) e dalla struttura estremamente concentrata del mercato agricolo nazionale, siamo ancora economicamente vivi, siamo la base dei produttori biologici italiani, riusciamo a produrre e commercializziamo i nostri prodotti soprattutto nel mercato interno attraverso forme e circuiti di cui portiamo per intero l’inventiva (mercati contadini, GAS, GODO, negozi collettivi dei produttori biologici, etc), la responsabilità ed anche i costi aggiuntivi.”

Coordinamento Europeo Via Campesina




APPENDICE 1
estratto da Nuove forme di ruralità: l'esperienza di CampiAperti di Rachele Lapponi

Genuino Clandestino: campagna per la libera lavorazione dei prodotti contadini

L'Associazione CampiAperti in seguito alla regolamentazione dei mercati ha avuto la necessità di autodenunciare ai propri consumatori che alcuni dei prodotti in vendita erano fuori legge, in quanto le norme igenico-sanitarie sono state calibrate per lo più sull'agroindustria alimentare e non su piccole realtà [...]. Queste norme igenico-sanitarie non permettono a queste ultime di sopravvivere, dato che non permettono le trasformazioni fatte nella cucina aziendale piuttosto che in quella di casa, come i contadini avevano sempre fatto, bensì vogliono formalizzare tutto il processo dando anche delle direttive su come costruire dei laboratori a norma e per sanzionare quelli che, per qualche clausola, non rientrano in queste.

Per attuare l'autodenuncia ai consumatori (e) alle istituzioni hanno pensato di procedere alla ricerca di un vero e proprio marchio e come tale ci voleva un nome ad effetto […].

La decisione del logo e soprattutto del nome è stata una scelta molto sofferta e ostacolata all'interno. Le proposte erano varie: “CampiAperti garantito 100%”, “il bandito buono”, “prodotto contadino autocertificato”, “prodotto contadino”, “prodotto rurale”, “autoproduzioni rurali”, “genuino clandestino”. La proposta risultata più accattivante, ma messa in discussione all'interno delle assemblee e nella mainglist, è stata Genuino Clandestino (alcuni pensavano che non fosse il caso di usare la parola clandestino, data la connotazione negativa di cui è stata carica. In merito sono emerse molte resistenze sia in assemblea, sia nella mailing-list dell’Associazione) […].

Malgrado queste disquisizioni, che portarono anche a fratture interne tra alcuni componenti dell'Associazione, la campagna trovò un'eco in altre realtà di produttori, come la Terra Trema di Milano, TerraTerra di Roma e la Ragnatela di Napoli solo per citarne alcune, che avevano gli stessi problemi e molteplici furono gli inviti che ricevette CampiAperti per presentare Genuino Clandestino. Da questa ampia schiera di consensi nasce la rete nazionale che vedrà coinvolti i più svariati progetti rurali nel territorio italiano e che comincerà a ragionare sull'accesso alla terra e sulle norme igenico-sanitarie […].

Ora a distanza di nove anni dall'inizio di questa esperienza cos'è cambiato?

Carlo, durante un incontro pubblico tenutosi a Xm24 nell'autunno 2010, tira le fila dell'evoluzione della realtà dal principio ad oggi; sostiene innanzitutto che CampiAperti, attraverso l'accesso ai mercati, ha contribuito alla sopravvivenza dei piccoli produttori che ne fanno parte e al consolidamento del loro percorso rurale in taluni casi di primo insediamento, in altri di completamento. Infatti sostiene che l'Associazione ha portato avanti sia un progetto economico che un progetto politico; economico perché oggi i mercati hanno creato intorno a loro un buon numero di persone e sono mediamente popolati, è un “ciclo produttivo” di economia alternativa che funziona […].

Abbiamo portato avanti anche dei discorsi politici, che al tempo erano stati indicati da Via Campesina, la quale sosteneva che attraverso l'agricoltura contadina si potesse arrivare ad una forma di produzione e distribuzioni qualitativamente e significativamente migliore di molte altre forme di produzione, e rispetto ad altre forme economiche; dichiarando che l'agricoltura contadina dovesse essere difesa anche in senso politico […].

Penso che in questi nove anni abbiamo costruito qualcosa di economicamente diverso da quello che c'è fuori, dal Mercato e siamo riusciti a farlo non per appartenenze a bandiere o quant'altro ma per alcune questioni sostanziali che ora cerco di spigarvi. Innanzitutto abbiamo preso come dato e l'abbiamo verificato sul campo e con la vendita che l'agricoltura contadina è l'unica forma che si possa ripresentare nel futuro perché rispettosa dell'ambiente, delle persone e della terra. E un'altra questione è che abbiamo sempre gestito il nostro percorso in maniera assembleare e orizzontale, quest'aspetto applicato ad una realtà economica crea una situazione interessante, perché se questo metodo è sempre stato applicato per i gruppi politici dove più o meno attraverso il consenso si arrivava a delle decisioni, una cosa anche piuttosto scontata... che questo venga fatta discutendo e mettendo in gioco la propria vita e il proprio reddito è una cosa molto importante.

Abbiamo constatato che il commercio e più precisamente la compravendita di prodotti è intrinsecamente perversa, per cui abbiamo abolito all'interno dei nostri mercati e ci siamo sempre più resi conto che doveva essere la cooperazione prevalente e che bisognava tenere a freno il conflitto e la competizione tra produttori.

Questi sono i tratti essenziali di quello che oggi è fondamentalmente CampiAperti, quello che emerge da una prospettiva di produttori e dalla coltivazione della terra con il metodo contadino.

“[...]Vorrei incontrare chi sta cercando, come noi, di costruire economie alternati
ve in settori non agricoli, per scambiarci esperienze,intensificare i legami, inventare altro”.
Germana


APPENDICE 2
estratto da L'agricoltura biologica è produttiva?
di Lim Li Ching, Third World Network, 2008.

Introduzione

Una domanda fondamentale da fare all'agricoltura contadina, compresa quella biologica, è se può essere sufficientemente produttiva per i fabbisogni alimentari mondiali. Mentre in molti la preferiscono da un punto di vista ambientale e sociale, restano i timori che l’agricoltura ecologica e biologica abbia rese basse.

Questo breve articolo riassume alcune delle prove a disposizione per demistificare alcuni assunti del dibattito in merito alla produttività e dimostrare che l’agricoltura ecologica è effettivamente produttiva.

In generale, i rendimenti da agricoltura ecologica possono essere grosso modo comparabili ai rendimenti da agricoltura convenzionale nei paesi sviluppati. Nei paesi in via di sviluppo invece le pratiche agricole ecologiche possono aumentare notevolmente la produttività, in particolare se il sistema esistente è a bassi input, ovvero nella gran parte dei casi in Africa. Questo articolo si concentrerà principalmente sui dati provenienti dai paesi in via di sviluppo.

Prove da modellizzazione globale

Un recente studio ha esaminato un database globale di 293 casi stimando il rapporto tra le rese medie di produzioni tra biologico e non biologico, per diverse categorie di alimenti, in paesi sviluppati e in via di sviluppo (Badgley et al., 2007) Per la maggior parte delle categorie di alimenti esaminati, emerge che il rapporto resa media (resa del biologico/resa del non biologico) è stato leggermente inferiore a 1,0 per gli studi in tutto il mondo sviluppato, ma più del 1,0 per gli studi nei paesi in via di sviluppo.

In media nei paesi sviluppati, il sistema organico produce il 92% del raccolto prodotto dall'agricoltura convenzionale. Nei paesi in via di sviluppo, tuttavia, il sistema organico produce l'80% in più rispetto le aziende convenzionali.

Con i rapporti di resa media, i ricercatori hanno poi ricavato, attraverso modello matematico, che l’approvvigionamento alimentare mondiale potrebbe essere ottenuto con metodi biologici sulla superficie agricola attualmente disponibile. Si è quindi concluso che i metodi biologici potrebber ipoteticamente produrre cibo a sufficienza a livello globale per sostenere l’attuale popolazione umana e potenzialmente una popolazione ancora più grande, senza aumentare il numero di terreni utilizzati per scopi agricoli.

Inoltre, contrariamente ai timori in merito all'effettiva esistenza di sufficienti quantità di fertilizzanti organici adeguati, i dati suggeriscono che le colture leguminose di copertura possono fissare l'azoto sufficiente a sostituire la quantità di fertilizzanti sintetici attualmente in uso.

Questo modello suggerisce che l'agricoltura biologica potrebbe potenzialmente fornire cibo a sufficienza a livello globale, ma senza gli impatti ambientali negativi dell'agricoltura convenzionale.

Risultati dallo studio di progetti di agricoltura ecologica

Dall'analisi di 286 progetti in 57 paesi, emerge che gli agricoltori che hanno fatto propri i metodi dell'agricoltura conservativa delle risorse o ecologica (Pretty et al., 2006), hanno aumentato la produttività agricola in media del 79%.

Sono state utilizzate diverse tecnologie e pratiche di conservazione delle risorse – compresa la lotta integrata, la gestione integrata dei nutrienti, la lavorazione conservativa del terreno, agroforestazione, la raccolta dell'acqua nelle zone aride, di allevamento e acquacoltura nel sistema aziendale agricolo. Queste pratiche non solo hanno aumentato le rese, ma anche ridotto gli effetti negativi sull'ambiente e hanno incrementato importanti bene e servizi ambientali (ad esempio, la mitigazione del cambiamento climatico), come evidenziato dalla maggiore efficienza dell'uso dell'acqua, dal sequestro del carbonio e la riduzione nell'uso di pesticidi.

Questo lavoro è fondato su ricerche precedenti, che hanno valutato 208 progetti di agricoltura sostenibile, evidenziando 89 progetti per i quali sono disponibili dati rilevanti che evidenziano che gli agricoltori considerati, adottando pratiche agricole sostenibili, hanno registrato aumenti sostanziali nella produzione alimentare per ettaro - gli aumenti di rendimento sono risultati mediamente del 50-100% per le colture non irrigue (e notevolmente maggiori in alcuni casi) e del 5-10% per le colture irrigue (Pretty e Hine, 2001).

I dati disaggregati mostrano che:

- l'ncremento di produzione alimentare per nucleo famigliare è cresciuto di 1,7 tonnellate all'anno (fino al 73% in più) per 4,42 milioni di piccoli agricoltori che coltivano cereali e tuberi, su una superficie di 3,6 milioni di ettari;

- l'aumento totale della produzione alimentare è stato di 17 tonnellate all'anno (fino al 150% in più) per 146.000 agricoltori su 542.000 ettari, per le colture di tuberi (patate, patate dolci, manioca);

- la produzione totale è aumentata di 150 tonnellate per nucleo familiare (46% in più) per le aziende più grandi in America Latina (dimensione media di 90ettari).

I dati raccolti sulla sostenibiltà dell'agricoltura (compresi quelli riguardanti i 286 progetti) sono stati ripresi e analizzati per elaborare delle conclusioni sull'impatto dei progetti di agricoltura biologia e sostenibile in Africa (Hine and Pretty, 2008). La resa media delle colture nei progetti risulta anche maggiore della media generale (79%): 116 % di incremento di resa nei progetti africani e 128 % per l'Africa orientale.

Nei progetti in Kenya, l'incremento di resa raggiunge il 179 %, in Tanzania il 67 % e per l'Uganda il 54 %. In conclusione, in tutti i casi considerati nella ricerca, la produzione alimentare mostra incrementi della produttività per ettaro, questo contraddice il mito comune che il metodo biologico non può incrementare la produttività agricola.

Risultati di specifici interventi di agricoltura ecologica

I dati del Progetto Tigray nella regione del Tigray in Etiopia, portato avanti a partire dal 1996, dimostrano concretamente i vantaggi dell’impiego di compost sulla produttività. I dati preliminari raccolti nel 1998 avevano già mostrato che l'utilizzo di compost ha favorito un aumento dei rendimenti simili a quelli che si ottengono con fertilizzanti chimici. I dati raccolti nel 2002, 2003 e 2004 hanno dimostrato che, in media, i campi di compostaggio hanno rendimenti più elevati, fino al doppio, rispetto a quelli trattati con fertilizzanti chimici (Araya e Edwards, 2006).

In un nuovo documento scritto per la FAO (Food and Agriculture Organization), l'analisi statistica su un numero di dati raccolti nel corso degli anni dal 2000 al 2006 conferma che l'uso di compost in Tigray ha aumentato il rendimento in tutte le colture analizzate (Edwards et al., 2008). In totale, i dati sono stati raccolti da 974 campi di 19 comunità. I dati delle rese in granella e paglia sono stati ottenuti per orzo, frumento duro, panico indiano (Eleusine coracana L. Gaertn.), hanfets (una miscela di orzo e frumento duro), mais, sorgo, teff (Eragrostis tef (Zucc.) Trotter), fava e pisello da foraggio.

Fatta eccezione per il pisello da foraggio, il compost generalmente ha raddoppiato la resa in granella rispetto al testimone (coltura senza input),er il pisello da foraggio, l'aumento di resa è stata di circa 28%. La differenza risulta significativa (limite di confidenza al 95 %). L'applicazione di compost ha aumentato anche la resa di paglia rispetto al testimone, ma non nella stessa misura che per la granella.

L'impiego di compost ha anche dato rendimenti più elevati rispetto all'uso di concimi chimici, anche se le differenze nei rendimenti tra compost e fertilizzanti chimici sono più ridotte che tra l'uso di compost e il controllo. Per il sorgo e la fava i rendimenti derivanti dall'uso di compost e fertilizzanti chimici risultano simili. Ma la differenza di rendimento per tutte le altre colture è maggiore con trattamento con compost che non con l'uso di concimi chimici. I risultati hanno anche mostrato che il compost non solo aumenta la resa globale di biomassa, ma aumenta inoltre la proporzione della granella rispetto alla paglia nella resa.

Dal 1998, l'Ufficio di Agricoltura e Sviluppo Rurale della Regione Tigray ha adottato la realizzazione di compost come parte del suo piano di sviluppo ed dal 2007 almeno il 25% degli agricoltori produce e usa compost. Una riflesso del successo di questo approccio è che tra il 2003 e il 2006, la resa in granella per la regione è quasi raddoppiata, passando da 714 a 1.354 mila tonnellate. Dal 1998, c'è stata anche una diminuzione costante dell'uso di concimi chimici che è passata da 13,7 a 8,2 mila tonnellate.
Ci sono molti altri esempi specifici di aumento della produzione in seguito all'applicazione di pratiche agricole ecologiche, alcune delle quali sono riassunte qui di seguito (Hine e Pretty, 2008; Parrott e Marsden, 2002; Pretty e Hine, 2001; Scialabba e Hattam, 2002). […]

Conclusioni

È chiaro che l'agricoltura ecologica è produttiva e ha il potenziale per soddisfare le esigenze di sicurezza alimentare, in particolare nel contesto africano. L' International Assessment of Agricultural Knowledge, Science and Technology for Development concorda nel dire che l’aumento e il rafforzamento del sapere, delle scienze e tecniche agricole verso le conoscenze agroecologiche contribuirà indirizzarci verso le istanze ambientali mantenendo e aumentando la produttività (IAASTD, 2008). Inoltre, i metodi agricoli ecologici consentono agli agricoltori di migliorare la produzione alimentare locale a basso costo, attraverso l’uso di tecnologie facilmente disponibili, senza causare danni ambientali.


Bibliografia

Araya, H. and Edwards, S. 2006. The Tigray experience: A success story in sustainable agriculture. Third World Network Environment and Development Series 4. TWN: Penang.

Badgley, C., Moghtader, J., Quintero, E., Zakem, E., Chappell, M.J., Avilés-Vázquez, K., Samulon, A. & Perfecto, I. 2007. Renewable Agriculture and Food Systems, 22: 86-108.

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[1] http://viacampesina.org/downloads/pdf/fr/paper6-FR.pdf

[2] Mais, L’agricoltura contadina e le migrazioni,

[3] Savini, 2006.

[4] Cavazzani, 2006.

[5] Participatory Guarantee Systems, Shared Vision, Shared Ideals, IFOAM, 2007.

Braccia (de)rubate in agricoltura


Braccia DErubate in agricoltura
Le otto ore che sul mercato non contano


Stasera partiamo dal riso, oryza sativa L., è un buon punto da cui iniziare a ragionare di cibo il modo globale; è il cereale che sfama metà della popolazione mondiale, il principale destinato all'autoconsumo, che sfama quindi l’umanità senza necessariamente passare per un mercato. Il riso non è quindi un prodotto che fa lievitare il PIL, indice riconosciuto della ricchezza di uno paese e della sua popolazione, ma è il cereale di base per la maggior parte delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo. Non solo, anche in Italia e in particolare in Piemonte è tradizionalmente presente nella cultura e nell'alimentazione.

Il riso ci apre a infinite riflessioni anche in campo agroecologico, innanzitutto perchè è una monocoltura pressoché obbligata, vincolata alla presenza dell'acqua per la maggioranza delle varietà coltivate, insomma è un tipo un po’ esigente, tanto quanto invece sono adattabili i suoi parenti più selvatici che troviamo nei laghi africani come nei siccitosi altopiani del Tibet. Coltivare lui significa condizionare profondamente e permanentemente un paesaggio ed un ambiente, modificare il suolo per la lunga sommersione e modificare la biodiversità animale e vegetale dell’intera zona.


Il panorama delle risaie in alcune zone del mondo è il primo paesaggio creato dall'uomo e nelle zone più adatte è anche l'agroecosistema più duraturo e autosufficiente che accompagna la nostra storia, lo testimoniano le risaie della Cordigliera filippina, che disegnano un paesaggio immutato da più di 2000 anni e dichiarate per questo patrimonio dell'umanità dall'Unesco.

Una risaia, grazie all'ambiente umido può essere piena di vita, a patto che non si usino le ingenti quantità di erbicidi e pesticidi prodotti dall'industria chimica, il cui boom di impiego in campo agricolo inizia nel secondo dopoguerra proprio da questa coltura.

Ma per legarci al tema della serata dobbiamo approdare nelle ricche pianure irrigue del Nord Italia, prima dell'arrivo della cosiddetta “rivoluzione verde”: il massiccio arrrivo di erbicidi di sintesi chimica infatti ha segnato la fine non solo della biodiversità e complessità dell'agrosistema risaia, ma anche di un mestiere storico e importante per l'Italia come furono le MONDINE, o mondariso. Queste, lo dice il nome, erano proprio il "diserbante" dell'epoca, il loro compito, dopo aver trapiantato le piantine di riso era quello di mondare la coltura dalle erbe infestanti, riconoscendo abilmente le erbacce dalle piantine di riso ancora piccole.

Stasera parliamo delle mondine per parlare di tutti i braccianti agricoli, quelli che ancora oggi portano con il loro lavoro buona parte delle pietanze nei nostri piatti.

Storicamente il Nord Italia ha conosciuto meno del Sud il sistema dei grandi latifondi agricoli, grande eccezione a questa considerazione sono sicuramente le pianure risicole che hanno visto crearsi un sistema di proprietari terrieri sempre più grandi e potenti per la media del Nord Italia, che erano quindi in grado di richiamare moltissima manodopera stagionale, femminile in particolare.

Braccianti senza terra, donne, povere e lontane da casa, le mondine sono un esempio da manuale di classe debole, sottopagata e sfruttata ed è per queste stesse caratteristiche unite alla vita in comune e alla soldarietà tra lavoratrici che le mondine ci raccontano una storia di lotte per migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro.

Son la mondina, son la sfruttata
Son la proletaria che giammai tremò
Mi hanno uccisa e incatenata
Carcere e violenza nulla mi fermò

Coi nostri corpi sulle rotaie
Noi abbiam fermato il nostro sfruttator
C'è tanto fango nelle risaie
Ma non porta macchia il simbol del lavor

Ed ai padroni farem la guerra
Tutti uniti insieme noi vincerem
Non più sfruttati sulla terra
Ma più forti dei cannoni noi sarem

Questa bandiera gloriosa e bella
Noi l'abbiam raccolta e la portiam più in su
Dal Vercellese a Molinella
Alla testa della nostra gioventù

E lotteremo per il lavoro
Per la pace il pane e per la libertà 
E costruiremo un mondo nuovo
Di giustizia e di vera civiltà 
E costruiremo un mondo nuovo
di giustizia e di vera civiltà
Canti delle mondine


Ed eccoci arrivati pieni e contenti alle arance. Prendete l’arancione frutto, fatelo girare fra le vostre mani, sentirete la caratteristica pelle, ruvida, incidetela leggermente con la punta delle vostre unghie e annusate perdendovi nella vostra memoria. Ora considerate le arance, considerate molte arance considerate una moltitudine di arance. Le arance ci riportano alle terre del sud al loro calore, alla loro storia e irruente vitalità, ma ci riportano anche alla disastrosa questione meridionale e alla condizione dei braccianti stagionali, per lo più migranti, che ne sostengono la coltivazione. Le caratteristiche organolettiche li rendono un alimento utilissimo per conservare la salute umana (l’alto contenuto di vitamina C, elemento tra l'altro mantenuto grazie al grado di acidità tipico del frutto, contribuisce all'attività surrenale, aiuta a prevenire l'infarto del miocardio ed il tumore allo stomaco e contribuisce ad allentare i danni del fumo), queste qualità positive sono purtroppo controbilanciate dalla condizione di vita dei lavoratori, il cui livello di sfruttamento li priva di qualsiasi forma di sicurezza e accesso ai diritti minimi. Nella comunità europea 2 milioni di lavoratori sono occupati a tempo pieno; oltre 4 milioni sono precari-stagionali i cui 2/3 di loro sono migranti. Assaporando sbadatamente qualsiasi frutto polposo dobbiamo considerare che stiamo assaporando I conflitti esplosi nel sud Italia, e nel mondo. In particolare a Rosario nel 2010 e a Nardò nel 2011, hanno reso di dominio pubblico la condizione degli stagionali che lavorano spesso in condizioni di vero e proprio sfruttamento: scarsamente pagati, vessati da intermediari e datori di lavoro, privi di diritti e garanzie.


Da un’indagine di Medici Senza Frontiere emerge che il 90% dei migranti occupati nelle campagne del meridione non possiede alcun contratto di lavoro, trattamento riservato anche a coloro in possesso di regolare permesso di soggiorno, e non godono dunque di alcuna tutela giuridica in termini di retribuzione, infortuni sui luoghi di lavoro, previdenza sociale, tutela sindacale, prevenzione e sicurezza sui luoghi di lavoro.

In media, la durata della giornata di lavoro degli stagionali è di 8/10 ore, per la quale la metà dei lavoratori guadagna una cifra compresa tra i 26 e i 40 euro a giornata mentre poco più di un terzo guadagna 25 euro o meno. Il compenso viene pattuito sul luogo del reclutamento e può essere a giornata o a cottimo, ovvero per numero di cassette di frutta o verdura raccolte. Nel foggiano, ad esempio, un bracciante straniero guadagna dai 4 ai 6 euro per raccogliere un cassone di pomodori da 350 chili.

La maggioranza degli stranieri impiegati come stagionali vive in condizioni igieniche e sanitarie drammatiche, in un stato di povertà estrema e di esclusione sociale. Migliaia di immigrati sono arrangiati in alloggi di fortuna, ruderi di campagna o fabbriche abbandonate, strutture fatiscenti prive di alcun servizio minimo (acqua, luce, bagni). La quasi totalità degli intervistati risulta privo di tessera sanitaria e non è iscritto al servizio sanitario nazionale.

La vostra arancia, se proveniente dall’agro-industria, porta con sé tutto ciò,le cui cause profonde possono essere comprese solo risalendo alle politiche agricole degli ultimi 60 anni.

Dal secondo dopoguerra, infatti, le scelte dei governi, protese verso modernizzazione e sviluppo, hanno segnato drasticamente le sorti dell’agricoltura: “modernizzazione forzata, cementificazione delle terre agricole, espropriazione dei saperi contadini presentati come puro folklore o esempi di arretratezza culturale, e imposizioni di norme igienico-sanitarie studiate per l’agroindustria, il tutto unito alle difficoltà sempre maggiori ad avere un reddito dignitoso”[1].

A fronte di tutto ciò, centinaia di migliaia di contadini hanno lasciato le loro terre e si sono riversati nelle città per lavorare in fabbrica e nei servizi oppure hanno preso la volta delle zone agricole industrializzate. L’agricoltura passa da contadina a industriale, le campagne si svuotano le città si riempiono.

Con la nascita del WTO, agricoltura, allevamento e pesca assumono un valore circoscritto al solo portato economico, senza tenere conto degli effetti sui consumatori e sui produttori.

I paradossi aperti da una simile strategia di sviluppo sono ben sintetizzato dal relatore speciale dell’ONU per il diritto al cibo, che così si esprime: “gli obblighi relativi ai diritti umani dei membri del WTO e gli impegni assunti tramite sottoscrizione degli accordi quadro del WTO restano non concordanti”.

La politica comunitaria ha seguito questa via favorendo la concentrazione e l'industrializzazione della produzione agricola europea, una sorta di ritorno al latifondo, intensificando da un lato l’impoverimento e la scomparsa di molti contadini, dall’altro l'aumento dello sfruttamento dei lavoratori.

A ciò va aggiunto l’influenza della grande distribuzione organizzata che dagli anni '80 diventa il sistema dominante di commercializzazione dei prodotti alimentari, diffondendo così i propri principi, quali la razionalizzazione dei processi produttivi e la massimizzazione dei profitti.

Nel corso degli ultimi trenta anni si è assistito così a un processo di concentrazione e alla nascita di cartelli, in grado di mettere in scacco sia i coltivatori sia i consumatori. Si tratta del fenomeno descritto come spirale della crescita dei supermercati: le economie di scala sono in grado di esercitare pressione sui coltivatori, affinché abbassino i loro prezzi. D’altro canto i consumatori che si affidano alla grande industria per ottenere i prezzi più bassi, spendono la maggior parte del proprio budget per costi di distribuzione. Il risultato è l’aumento dei prezzi per il consumatore e l’abbassamento dei profitti per il produttore[2].

Soluzioni per rivalutare e apprezzare maggiormente questa arancia per concludere la nostra serata sono molteplici, quella che vi proponiamo noi non è la più semplice né la più scontata, essa parte nel rivendicare, con le parole del coordinamento Europeo della Via Campesina:



- l'istituzione di un aiuto speciale per le piccole aziende, riconoscendo la loro funzione economica, sociale e di salvaguardia del territorio;

- l'istituzione, nell'ambito della Politica Agricola Comune, della condizionalità degli aiuti legati al rispetto del diritto del lavoro;

- il divieto per gli Stati a favore o sovvenzionare gli agricoltori che non rispettino i loro obblighi in quanto datori di lavoro;

- la politica agricola comune preveda l'istituzione di un osservatorio per monitorare le condizioni di impiego della manodopera stagionale;

- la firma, la ratifica e l'attuazione da parte di tutti i paesi europei della convenzione internazionale sui lavoratori migranti;

- la firma, la ratifica e l'attuazione da parte di tutti i paesi europei della convenzione internazionale n. 184 per la sicurezza e la salute in agricoltura della Organizzazione Internazionale del Lavoro;

- la regolarizzazione dei lavoratori agricoli e dei lavoratori senza documenti.



“Quella situazione triste ce la portiamo nel nostro cuore, così come voi nel vostro. Noi siamo persone come voi. Vogliamo lavorare per vivere, come voi. Siamo in difficoltà quando non c’è lavoro, come voi. Emigriamo per trovare lavoro come tanti di voi in passato e ancora oggi. Abbiamo famiglie, madri, fratelli, figli, come voi. Siamo qui per cercare una vita migliore, non per creare problemi. Per questo vi diciamo che non dovete avere paura di noi. L’emigrazione è una risorsa, economica, culturale… un’occasione di cui approfittare, noi e voi. Chi in questi giorni ha parlato di noi diffondendo la paura è responsabile per le sue parole.”

Lettera aperta dei braccianti africani alla città di Rosarno




[1] F. Garbarono, L’agricoltura contadina nel mondo e le migrazioni, Creating Coherence on Trade and Development – Ong M.A.I.S., 2011.


[2] tra il 1990 e il 2008 in Francia il prezzo al consumo di carne è salito del 50%, quello pagato ai produttori è sceso del 15%. In Italia il grano (vd. p. 13). Secondo Coldiretti il 60% del prodotto va alla distribuzione, il 23% all'industria di trasformazione, il 17% all'agricoltore.